Gli anelli della vita


Nel rione esisteva una “banda” di ragazzini. Non era obbligatorio farne parte ma scegliere di non appartenere a questa organizzazione significava vivere da soli e, fatto molto più importante, giocare da soli. Le bande cittadine non avevano regole scritte ma quelle che c’erano erano perfettamente conosciute e rispettate da tutti. La struttura interna ricalcava fedelmente le legge della strada. Il più forte vince e comanda. E’ lui che sceglie un paio di luogotenenti, è lui che decide cosa si deve fare oggi, è lui che ordina chi deve andare a procurarsi qualcosa, è lui che dispone di te. Il luogo dove venivano decise le frequenti controversie era quel chiassetto che, opposto alla chiesa, dalla Piazza andava a sbucare sul fosso. Attilio era diventato il capo dopo una lunga scazzottata con Francesco che adesso era uno dei suoi luogotenenti. Avrà avuto una decina di anni ma era grande e grosso per la sua età. Rosso di capelli e pieno di lentiggini era sempre incazzato e, a tutti, sembrava proprio cattivissimo. Attilio dimostrava di essere il capo con la prestanza, il modo di camminare di fare e di parlare. Aveva quel non so che, quel qualcosa che lo faceva distinguere dal branco e che oggi si chiama “carisma” . Un po’ lo invidiavamo tutti. A quel tempo ero molto più basso dei miei già bassi coetanei, scuro di carnato, avevo un musetto da paciocchino, gli orecchi ben a sventola sotto una testata di capelli disordinati e modi di fare apparentemente mansueti. Gli occhietti però erano vispi e sempre in movimento. Con un fisico oggettivamente perdente avevo poche possibilità di riuscire ad emergere ma, anche se non avevo alcuna possibilità di diventare un capo, la mia principale aspirazione era quella di non restare schiavo tutta la vita come gli altri. Attilio aveva un fratellino più piccolo che, proprio per la condizione di fratello del capo, era un intoccabile. Il suo lato debole era la sua famiglia che appariva ancora più povera della mia. Utilizzare questo vantaggio fu semplice. Furono sufficienti un paio di giornalini di Tex ed una vecchia automobilina perché diventassi il suo miglior amico. Quando fui convinto del suo attaccamento decisi che era giunto il momento di agire. Finalmente arrivò il giorno del giudizio. Ci trovammo tutti nel chiassetto a risolvere i soliti contrasti interni. Colui che veniva sfidato si metteva sulla spalla un oggetto qualsiasi e, a muso duro, si poneva di fronte allo sfidante urlando: “se hai coraggio levalo!”. Chiunque allungava la mano sapeva a quali conseguenze si sarebbe esposto. Francesco, il luogotenente, quel giorno era lo sfidato. Fermo, con le mani sui fianchi, era davanti allo sfidante ed aveva pronunciato la frase intimidatoria. Lo sfidante, forse impaurito anche dalla vicinanza di Attilio, non fece una mossa ma, dal gruppetto, venne avanti un piccolo imbecille. Io. Ricordo di aver notato solo due cose. Attilio che aveva accanto a sé il suo fratellino e la faccia stupita di Francesco. Ora o mai più. Con una mossa rapida buttai per terra l’oggetto del contendere. Il “sacrificio” era iniziato ma la ricompensa era incerta. Anche se cercavo di non farlo vedere avevo una paura boia ma al tempo stesso contavo su quello che, come avevo previsto, sarebbe dovuto accadere. Dopo l’attimo di stupore generale, Francesco mi diede una spinta a due mani che mi fece volare per terra facendomi battere una culata violenta. Non mi ero ancora ripreso dalla botta che Francesco mi era già sopra smanacciando, urlando e sbraitando come un cane rabbioso. Stavo per piangere ma avvenne il miracolo. Attilio, su ovvia sollecitazione del fratellino, intervenne per separarci. Non ricordo bene quali furono le motivazioni dell’interruzione che il capo spiegò al branco che assisteva alla scena. La cosa si risolse con quella spinta, una culata ed un paio di schiaffoni ma la ricompensa fu all’altezza del rischio corso. Da quel giorno non fui più considerato uno “normale” ma quello che, palesemente inferiore, aveva sfidato un luogotenente. Avevo perso, ma avevo acquistato la stima eterna dei vertici e di tutto il branco per il coraggio dimostrato. Quella sera, prima di addormentarmi, mi feci un sacco di complimenti. Da domani, nella giungla di Piazza San Francesco, sarei stato considerato un ometto.